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Rilasciato il Rapporto annuale ISTAT

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La ventinovesima edizione del Rapporto Annuale analizza la situazione emersa dall’emergenza sanitaria e ne considera gli effetti sulla società e sull’economia italiana. La rapida evoluzione dei comportamenti è colta attraverso informazioni arricchite dalle indagini specifiche presso le famiglie e presso le imprese, condotte già nel corso della crisi. E’ di rilevante importanza, secondo l’Istituto, riavviare il processo di accumulazione di capitale materiale e immateriale nel nostro Paese, con l’obiettivo di aumentarne il potenziale di crescita.

La presentazione

Venerdì 9 luglio alle ore 11.00 a Palazzo Montecitorio, il Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo ha illustrato il “Rapporto annuale 2021. La situazione del Paese”.

Particolare attenzione è stata dedicata all’impatto dovuto al COVID-19 sugli andamenti demografici, con un approfondimento sulla mortalità per cause, e alla tenuta del sistema sanitario in termini di prestazioni per l’insieme delle patologie. Esamina le tendenze del capitale umano e del mercato del lavoro con riferimento alle dimensioni di genere, generazionali e territoriali, che corrispondono agli assi d’intervento del PNRR – Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Analizza i punti di forza e le fragilità del sistema delle imprese nella fase di recupero, ancora non esteso all’intera economia, e il tema della digitalizzazione del sistema produttivo. Infine, considera le dimensioni del livello di sviluppo degli investimenti, delle infrastrutture e della sostenibilità ambientale, centrali nell’impianto prospettico del Programma italiano e in quello europeo Next Generation – EU.

I temi

Diversi sono stati i temi trattati nel rapporto, con riferimento a:

  1. La crisi e il recupero: la congiuntura economica e sociale
  2. Lo shock da pandemia: impatto demografico e conseguenze sanitarie
  3. Mobilità sociale, diseguaglianze e lavoro
  4. Il capitale umano: divari e diseguaglianze
  5. Il sistema delle imprese: tra crisi e ripresa, investimenti e transizione ecologica alla luce del PNRR

Quale congiuntura economica stiamo vivendo?

Nel primo Capitolo ISTAT ha concentrato la propria attenzione sul quadro economico e sociale italiano, che è stato caratterizzato, alla metà del 2021, dai contraccolpi negativi della crisi derivata dall’emergenza sanitaria, ma anche dal delinearsi della ripresa dell’attività economica. La recessione globale è stata violenta e di breve durata, con un immediato rimbalzo favorito dalle misure di sostegno e ulteriori pause dovute ai provvedimenti di contenimento del contagio. I mesi più recenti hanno visto la convergenza di tutte le principali economie verso un sentiero di veloce recupero a cui il nostro Paese sembra essersi agganciato[1].

Qual è stato l’impatto della pandemia sullo stato demografico e sanitario italiano?

Il secondo capitolo viene dedicato alle conseguenze, sul piano sanitario ma soprattutto demografico dovuto alla pandemia. ISTAT sottolinea come la crisi pandemica abbia esercitato un forte impatto sui comportamenti demografici e ha causato un forte stress sulle strutture sanitarie che si è riflesso sulla capacità di prevenzione e cura delle malattie. L’eccesso di mortalità ha ridotto in maniera sensibile la speranza di vita della popolazione in modo non omogeneo sul territorio, penalizzando maggiormente le aree del Nord. Gli effetti sono stati disuguali, in termini sociali, sia per quanto riguarda i comportamenti demografici sia rispetto alla

mortalità. L’evoluzione della popolazione nel 2020, nonché le prime evidenze riferite al 2021, rafforzano la convinzione che la crisi abbia amplificato gli effetti del malessere demografico strutturale che da decenni spinge sempre più i giovani a ritardare le tappe della transizione verso la vita adulta, a causa delle difficoltà che incontrano nella realizzazione dei loro progetti di vita[2].

Qual è stato l’impatto su disuguaglianze di genere?

ISTAT, nel terzo capitolo sottolinea come pandemia e crisi economica siano strettamente legate: esse hanno

avuto e avranno conseguenze negative sulle diseguaglianze di genere, età e territorio che caratterizzano il nostro Paese da lungo tempo. L’accrescimento del capitale umano è la vera leva per il superamento di questi divari. Il confronto con l’Europa evidenzia il ritardo dell’Italia sull’istruzione. Il nostro Paese è in linea sul tasso di diplomati ma distante per i titoli terziari. Anche per i più giovani, nonostante gli importanti progressi ottenuti, non ci sono evidenze di un cambio di rotta sostanziale sia perché è basso il tasso di ingresso all’università sia perché è alta la probabilità di insuccesso. Appena la metà dei giovani che conseguono il diploma si immatricolano all’università nello stesso anno. Poco più di un terzo dei 25enni consegue un titolo universitario. Le ragazze, che più frequentemente proseguono gli studi e si laureano, sono comunque penultime in Europa. Nel Mezzogiorno lo svantaggio è particolarmente accentuato[3].

Il mondo dell’imprenditoria ha subito una grave crisi

La pandemia ha innescato serie conseguenze sul mondo delle imprese: a partire da marzo 2020 il sistema produttivo italiano ha subito pesantemente gli effetti economici della crisi sanitaria. Anche se il progressivo superamento delle restrizioni è andato in parallelo, nella prima parte di quest’anno, con segnali sempre più

diffusi di recupero dell’attività in gran parte dei settori produttivi, le conseguenze sulle imprese della fase di acuta difficoltà sono ancora da decifrare e valutare. Inoltre, le modifiche dei comportamenti di famiglie, imprese e istituzioni potrebbero determinare impatti profondi, la cui estensione e intensità saranno leggibili pienamente solo nei prossimi anni.

La necessità di misurare fenomeni in così rapida evoluzione ha richiesto uno sforzo ulteriore alla statistica ufficiale. Nei mesi di maggio e novembre 2020 sono state realizzate due indagini volte a cogliere in modo approfondito l’impatto della pandemia sulla performance e sulle scelte strategiche delle imprese. Tali indagini costituiscono un elemento fondante delle analisi proposte in questo capitolo; la possibilità di integrarle con fonti di natura statistica e amministrativa consente di indagare in modo approfondito sulla

solidità strutturale del sistema produttivo, sulle sue possibilità di reazione alla crisi e sulla sua capacità di ripresa. La complessità del fenomeno ha indotto ad analizzare nelle pagine seguenti alcuni elementi di diversa natura e di particolare rilevanza sollevati dalla crisi. Più in dettaglio, il primo paragrafo dà conto della eterogeneità con cui la crisi ha impattato il fatturato delle imprese nel corso del 2020, evidenziando la differenza di performance tra il primo e il secondo semestre e il grado di diffusione della ripresa, rafforzatasi nei primi mesi del 2021. La crisi ha inoltre evidenziato diffuse fragilità strutturali, che nel medio-lungo periodo potrebbero condizionare la capacità di recupero delle imprese. Tali capacità vengono analizzate nel secondo paragrafo, utilizzando un indicatore di “solidità strutturale” che permette una valutazione a livello micro della loro resilienza sulla base di una serie di fattori comportamentali e di performance. Al riguardo, emerge con forza il ruolo rivestito dalla dimensione delle unità produttive, con un forte effetto penalizzante per le imprese più piccole, e quello delle strategie  di investimento attuate prima della crisi, in particolare in capitale

umano e digitalizzazione. La rapida evoluzione della trasformazione digitale delle imprese nel corso della crisi, in riferimento soprattutto all’utilizzo di Ict avanzate e del lavoro da remoto, viene approfondita nel terzo paragrafo, in una prospettiva che tiene conto della eterogeneità settoriale e della possibile evoluzione futura del fenomeno. Infine, nel quarto paragrafo si esamina come la crisi abbia colpito le aree geografiche del Paese. A tale scopo, dapprima si valuta la potenziale vulnerabilità delle regioni a seconda di quanto i loro sistemi produttivi tendano a specializzarsi nelle attività più direttamente colpite dalle ripercussioni economiche della pandemia. In seguito, le prospettive di recupero dei territori vengono analizzate individuando due tipologie di imprese di elevata importanza per i sistemi economici locali: da un lato quelle che prima della crisi avevano investito con intensità e avevano attivato strette relazioni con altre unità produttive; dall’altro quelle che, oltre a ciò, avevano anche realizzato una crescita della produttività e del fatturato. L’eventuale crisi di operatività di tali imprese determinerebbe, per i territori interessati, un impoverimento del tessuto produttivo tale da metterne a rischio le possibilità di una ripresa in tempi ragionevolmente rapidi.

Rapporto ambiente e investimenti all’indomani dell’avvio del PNRR.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (di seguito PNRR), trasmesso a fine aprile dal Governo alla Commissione Europea, descrive gli obiettivi strategici e le linee di intervento che l’Italia adotterà per l’utilizzo dei fondi del Programma Next Generation EU (NG-EU). Quest’ultimo potrà garantire al nostro Paese risorse per oltre 200 miliardi di euro su un orizzonte di sei anni (2021-2026) – ai quali se ne aggiungerebbero altri 30 di fondi nazionali – con l’obiettivo di rilanciare gli investimenti, recuperare i livelli di attività pre-crisi e mitigare gli effetti economici e sociali del COVID-19. I fondi serviranno, inoltre, ad accelerare il percorso dell’economia verso la transizione ecologica e digitale, rafforzando la resilienza del sistema produttivo e la coesione di quello sociale e favorendo uno sviluppo più equilibrato tra i territori.

Le misure previste nel PNRR intervengono su alcune debolezze strutturali del nostro Paese: le disuguaglianze di genere e le marcate differenze territoriali; il basso investimento in istruzione e le difficoltà dei giovani; l’insufficiente investimento delle imprese in risorse umane e digitalizzazione. In

E’ di rilevante importanza, secondo l’Istituto, riavviare il processo di accumulazione di capitale materiale e immateriale nel nostro Paese, con l’obiettivo di aumentarne il potenziale di crescita. L’evoluzione della nostra economia si caratterizza ormai da tempo per una prolungata stagnazione della produttività del lavoro, cui ha contribuito la debolezza del ciclo di accumulazione del capitale, anche a causa della riduzione degli investimenti pubblici.

Viene rilevato come, nonostante l’intensità dell’investimento in R&S sul Pil sia ancora lontana dal livello medio dell’Uem, tanto per la componente pubblica che per quella privata, la spesa in R&S delle imprese risulta in significativo aumento negli ultimi anni, soprattutto grazie al ruolo crescente delle piccole e medie imprese.

La bassa sinergia tra settore pubblico (università e centri di ricerca) e privato nelle attività di ricerca, più debole di quanto avviene negli altri principali paesi europei, rivela importanti margini di miglioramento per aumentare il grado di conoscenza incorporato nelle nostre produzioni.

Le opportunità di sviluppo del Paese passano, infine, per un rafforzamento del capitale infrastrutturale e l’ammodernamento delle reti di trasporto, di energia, digitali, ancora disomogenee tra le aree del Paese.

La transizione verso una economia maggiormente orientata alla sostenibilità ambientale è uno dei tre assi strategici del PNRR e obiettivo specifico di una fondamentale area di intervento. In questo ambito, le azioni che favoriscono l’aumento dell’efficienza energetica, l’incremento dell’uso delle fonti rinnovabili nella produzione di energia e la mobilità locale sostenibile, puntano a indirizzare l’economia in una direzione coerente con gli obiettivi programmatici introdotti nell’ambito del Green Deal europeo.

L’analisi del percorso del nostro Paese verso la transizione ecologica rappresenta così il tema della seconda parte di questo capitolo.

Le misure previste nel PNRR si innestano in un contesto generale di disaccoppiamento tra la crescita dell’economia e quella della pressione esercitata sull’ambiente in termini di emissioni di gas serra nei paesi delle Ue27. Le attività produttive hanno fornito l’apporto maggiore alla riduzione complessiva delle emissioni, a fronte di una riduzione più contenuta da parte delle famiglie. La natura del fenomeno dei cambiamenti climatici richiede di affiancare alle misure delle emissioni direttamente generate dalle economie nazionali altre – qui proposte – che tengano conto delle componenti connesse agli scambi internazionali, quale l’impronta di gas serra che ha dimensione globale. Analogamente, le stime dell’impronta materiale, che misura il prelievo di risorse naturali connesse al funzionamento dell’economia, permettono di valutare le pressioni esercitate sull’ambiente anche al di fuori dei confini nazionali. La valutazione della sostenibilità ambientale dell’economia passa anche attraverso la misurazione del valore aggiunto prodotto dalle attività a specifica vocazione ambientale, molte delle quali sono interessate dagli interventi previsti dal PNRR.

L’analisi delle risposte introdotte a oggi per contrastare le criticità ambientali nei territori, con particolare attenzione alle città e all’ambiente urbano, consente di delineare, infine, un quadro di riferimento utile a monitorare i risultati delle misure proposte, anche in termini di riduzione delle eterogeneità territoriali.

[1] In dettaglio: L’impatto della crisi sanitaria ha colpito l’economia italiana in maniera particolarmente acuta, con una caduta del Pil dell’8,9 per cento nel 2020, determinata essenzialmente dal crollo della domanda interna e in particolare dei consumi. Nel primo trimestre 2021, nonostante il prolungarsi dell’emergenza, l’attività economica si è stabilizzata, con importanti progressi nella manifattura e nelle costruzioni e in alcuni comparti del terziario. In primavera, la ripresa dell’industria si è accentuata e il clima di fiducia delle imprese è divenuto via via più positivo anche in gran parte dei servizi. La crisi ha investito anche il mercato del lavoro: il calo dell’occupazione ha riguardato all’inizio principalmente i dipendenti a termine e gli indipendenti, poi anche i lavoratori a tempo indeterminato. Ad aprile 2021, rispetto a prima dell’emergenza, gli occupati risultano in diminuzione di oltre 800 mila unità. La contrazione dei posti di lavoro si è accompagnata a un calo della disoccupazione e all’aumento dell’inattività, ma nella fase recente di moderato recupero occupazionale emerge un ritorno alla ricerca di occupazione.  Nel 2020 la dinamica dei prezzi è stata compressa dal crollo della domanda e delle quotazioni delle materie prime, con un tasso di inflazione in media quasi nullo. Nei primi mesi di quest’anno la risalita del prezzo del petrolio e il generale recupero dell’attività economica hanno cominciato ad alimentare le spinte inflazionistiche, che nel nostro Paese restano più moderate che nel resto della Uem.  Il 2020 è stato un anno particolare per la finanza pubblica, a causa delle misure eccezionali di contrasto della crisi. I vincoli posti dal Patto di Stabilità e Crescita sono stati sospesi, con aumenti generalizzati dei deficit pubblici; nel nostro Paese il disavanzo ha toccato il 9,5 per cento del Pil, contribuendo a far salire notevolmente l’incidenza del debito. Le recenti previsioni Istat stimano per il 2021 una robusta ripresa dell’attività, dei consumi e degli investimenti, spinti anche dall’avvio del PNRR: la crescita del Pil dovrebbe essere del 4,8 per cento e proseguire, con un ritmo di poco inferiore, l’anno successivo. I flussi di trasferimento verso le famiglie hanno molto contenuto gli effetti della contrazione dell’attività sul reddito disponibile (sceso del 2,8 per cento). Tuttavia, le misure connesse alla crisi sanitaria e i mutamenti di comportamento hanno determinato una caduta dei consumi ben più ampia rispetto a quella del reddito, con un eccezionale aumento della propensione al risparmio. In conseguenza della contrazione dei consumi, anche l’incidenza della povertà assoluta risulta in forte crescita, sebbene se ne riduca l’intensità: molte famiglie scivolate in tale condizione hanno mantenuto, anche grazie alle misure pubbliche di sostegno, una spesa prossima alla soglia di povertà. Nella seconda indagine “Diario della giornata e attività ai tempi del coronavirus” si sono rilevati i cambiamenti che la crisi ha prodotto nell’organizzazione della vita quotidiana. A distanza di quasi un anno dall’inizio dell’emergenza, coesione e fiducia nelle istituzioni sono i sentimenti che sembrano prevalere. D’altra parte, le abitudini e i comportamenti si sono modificati, con effetti sull’organizzazione dei tempi della maggioranza della popolazione, guidati dalla riduzione delle attività extra domestiche. Nella seconda ondata epidemica, invece, la descrizione delle giornate e delle attività svolte mostra una transizione verso una quotidianità più vicina a quella pre-crisi.

[2] In particolare La prolungata permanenza nella famiglia di origine è dovuta a molteplici fattori: aumento diffuso della scolarizzazione e allungamento dei tempi formativi; difficoltà nell’ingresso nel mondo del lavoro e precarietà dell’occupazione; difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni. A questi fattori, amplificati nei periodi di crisi dell’economia, si aggiungono gli effetti immediati che hanno contrastato gli spostamenti migratori e la nuzialità e, quindi, indirettamente la natalità. Il quadro demografico nel 2020 è contraddistinto da un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia e da un massimo di decessi dal secondo dopoguerra. Gli effetti negativi sulla dinamica demografica prodotti dall’epidemia hanno accelerato la tendenza al declino già in atto dal 2015: la popolazione residente è inferiore di quasi 400 mila unità rispetto al 2019, a causa del calo delle nascite, dell’eccesso di mortalità e della contrazione del saldo migratorio con l’estero. Le evidenze relative all’inizio del 2021 forniscono elementi per valutare le ricadute della crisi, soprattutto per quanto riguarda le nascite. Il fatto che il calo dei nati a gennaio 2021 sia tra i più ampi mai registrati, dopo la diminuzione già marcata negli ultimi due mesi del 2020 (in corrispondenza dei concepimenti della primavera del 2020), lascia pochi dubbi sul ruolo svolto dall’epidemia. Il calo delle nascite tra dicembre e febbraio può essere un fenomeno dovuto al posticipo dei piani di genitorialità solo di  pochi mesi, effetto dell’emergenza, o piuttosto indizio di una tendenza più duratura in cui il ritardo è persistente o tale da portare all’abbandono della scelta riproduttiva. L’aumento dei nati osservato a marzo 2021 è tale da far ipotizzare un leggero recupero nei mesi estivi dei concepimenti rinviati in primavera. Recupero forse anche motivato dall’illusorio superamento dell’emergenza a partire da maggio del 2020. Tra i fattori legati ai progetti di vita individuali, vi è il calo eccezionale dei matrimoni. In Italia, infatti, ancora oggi la maggior parte delle nascite avviene all’interno del matrimonio (due terzi dei nati nel 2019). Si stima che, in assenza di modifiche di comportamento, il crollo dei matrimoni osservato nel 2020 possa portare a una riduzione di 40 mila nati entro il 2023. Una perdita non necessariamente recuperabile attraverso modifiche del calendario della nuzialità e della fecondità delle giovani coppie. L’emergenza sanitaria ha imposto restrizioni che hanno dettato nuovi stili di vita e limitato la mobilità, riducendo al minimo sia i trasferimenti interni sia i flussi da e per l’estero. Ciò, in congiunzione con gli effetti economici e sociali dell’emergenza, ha avuto conseguenze molto rilevanti sui movimenti migratori e sulla condizione dei migranti. I nuovi permessi di soggiorno rilasciati nel 2020 indicano una drastica diminuzione dei nuovi flussi verso il nostro Paese, causata anche dai blocchi delle frontiere. La pandemia ha avuto un effetto drammatico sulla mortalità, non solo per i decessi causati direttamente, ma anche per quelli dovuti all’acuirsi delle condizioni di fragilità della popolazione, soprattutto anziana. I ritardi e le rinunce di prestazioni sanitarie finalizzate alla cura di patologie in fase acuta o ad attività di prevenzione avranno delle conseguenze sulla salute della popolazione. I dati a disposizione documentano, nei primi due mesi della crisi sanitaria, un aumento di decessi legati a patologie per le quali la tempestività e la regolarità delle cure sono spesso decisive. I dati più recenti sull’attività di assistenza sanitaria territoriale, visite specialistiche e accertamenti diagnostici, misurano una diminuzione generale delle prestazioni, anche di quelle indifferibili. Le conseguenze di questa dinamica sono difficili da stimare complessivamente, soprattutto per le patologie prevenibili.

[3] In particolare, non ci sono abbastanza laureati, non tutti rimangono e pochi tornano; dal 2008 si è avuta una perdita netta complessiva di 259 mila giovani di 25-34 anni, con saldi costantemente negativi. In questo contesto, lo shock causato dalle sospensioni della didattica in presenza, può avere importanti conseguenze sulle competenze degli studenti. Nella prima fase della pandemia non ha partecipato alle video lezioni l’8 per cento di bambini e ragazzi. L’avvio dell’anno scolastico 2020-2021 è avvenuto per oltre il 30 per cento degli studenti fino a 14 anni a distanza o in modalità mista. Una criticità è rappresentata dall’alto tasso di abbandoni precoci che si associa a rischi di esclusione dal mercato del lavoro. Si tratta di oltre mezzo milione di 18-24enni con al massimo la licenza media. Il loro tasso di occupazione è inferiore di quasi 10 punti rispetto a quello degli europei della stessa condizione. Nel 2020 sono nuovamente in crescita anche i 15-29enni che non studiano e non lavorano, noti come NEET, un quarto dei giovani di questa fascia. Le condizioni del contesto socioeconomico e familiare di appartenenza influiscono sulla probabilità di trovarsi in questa condizione. Il ruolo positivo del capitale umano emerge all’interno del mercato del lavoro: il possesso di un titolo di studio più elevato, oltre ad aumentare la partecipazione, si dimostra fattore determinante nell’accrescere le chance di occupazione, particolarmente per il segmento femminile, anche quando subentrano i ruoli genitoriali. Il tasso di occupazione delle donne laureate si è ridotto di meno durante la crisi economica del 2008 rispetto a quello delle diplomate, e nella ripresa è cresciuto nettamente di più, superando i livelli precrisi. Nel Mezzogiorno essere laureati (ed in particolare laureate) sembra rappresentare una condizione decisiva rispetto agli esiti sul mercato del lavoro. Anche durante l’emergenza sanitaria, il possesso di un titolo di studio elevato ha mantenuto un carattere protettivo, pur con segnali di indebolimento, almeno per alcune categorie di lavoratori. La concentrazione degli effetti della crisi su determinati settori e tipologie occupazionali ha penalizzato alcuni segmenti, quali le donne e i giovani, indipendentemente dal titolo di studio posseduto. Prima della crisi pandemica, il tasso di occupazione dei 30-34enni laureati era pari al 78,9 per cento, con un differenziale di oltre 8 punti rispetto alla Ue27; nel 2020 si è leggermente ridotto (78,3 per cento), ma la distanza con l’Ue27 è invariata. Tra i giovani nel nostro Paese resta, tuttavia, importante il vantaggio occupazionale della laurea rispetto al diploma, con un distacco di 4 punti per i maschi e di oltre 20 punti per le femmine. La grande distanza tra i livelli del Mezzogiorno e quelli del resto del Paese indicano l’esistenza di un ampio potenziale di risorse non utilizzate. Al titolo di studio si associano in media vantaggi significativi anche dal punto di vista retributivo, con differenze rilevanti a livello territoriale.

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